
A cura di Alessandro Saviotti
P&M: Come è nato in lei lo spirito imprenditoriale?
Il mio spirito imprenditoriale non è nato in famiglia, perché nessuno dei miei avi è stato imprenditore prima di me. A dire la verità, c’era una bisnonna che aveva un carretto di frutta e verdura al mercato di Pola e il suo slogan era: “Con questo ho fatto la casa!”. Quella costituiva la parte più simpatica e più popolare della famiglia. Fin da piccola, però, ho ricevuto un grande insegnamento, perché mi hanno fatto conoscere la dignità del lavoro. Io e i miei fratelli, infatti, dovevamo studiare, ma non ci venivano comprate o regalate cose inutili. Così, per comprarmi o fare quello che mi piaceva ho cominciato a lavorare a 13 anni. Tenevo ripetizioni e per un periodo ho fatto anche la commessa in un negozio di stoffe. È così che ho conquistato l’orgoglio di lavorare. Il lavoro poi mi ha accompagnato per tutta la vita, nella buona e nella cattiva sorte.
P&M: Per fare un piccolo quadro iniziale, quali sono le fasi del suo percorso imprenditoriale?
In estrema sintesi, potrei individuare tre fasi distinte nel percorso che mi ha portato sin qui.
La prima, che ha attraversato tutti gli anni Ottanta, la potrei definire “dell’auto- apprendimento”. Essa è stata caratterizzata dalla limitatezza delle risorse (non solamente finanziarie) disponibili per l’esercizio dell’attività aziendale, ma ciò si è rivelato un grande vantaggio perché ho imparato a fare tutto: andavo a tutte le fiere di settore per conoscere il mercato e per imparare a vendere. Inoltre, disegnavo e portavo a produrre la merce e vendevo consegnando io stessa.
Molte sono state le difficoltà che ho dovuto affrontare all’inizio della mia storia imprenditoriale, dovute soprattutto alla mia incompetenza, ma soltanto grazie agli enormi sbagli che ho commesso nei primi anni ho potuto conoscere davvero i processi di gestione aziendale. Ho quindi imparato sbagliando sulla mia pelle, cosa che forse non sarebbe permessa oggi. La dimensione minima richiesta e la finanziarizzazione progressiva dell’economia è stata tale per cui, io credo, non sarebbe possibile oggi all’artigiano italiano diventare un medio imprenditore allo stesso modo.
P&M: Quando è terminato questo Suo “autoapprendimento”?
In realtà non credo sia terminato: anche adesso mi guardo intorno con profonda umiltà, mi verrebbe da dire che sono una “apprendista in cammino”, che sta ogni giorno scoprendo qualcosa di bello.
P&M: Poi cosa è successo negli anni Novanta?
Dal punto di vista finanziario è andata ancora peggio, se possibile. Già negli anni precedenti, infatti, avevo imparato a sufficienza ad indebitarmi di colpo per tutto quello che avevo guadagnato e ad impegnare quanto avevo costruito fino a quel giorno. Nel 1985, ad esempio, ero entrata in Replay come socia di minoranza (anche se al 49,9%), nel 1991, invece, avevo acquisito il controllo di Doxa S.p.A. per amore del mio papà, di quella che era sempre stata la sua vita e per timore che i nuovi acquirenti ne avrebbero fatto uno strumento di pressione politica sull’opinione pubblica. Successivamente a queste acquisizione, realizzate a debito ed ipotecando tutti i miei averi, ho compreso quanto fosse importante patrimonializzare adeguatamente le mie aziende. Oggi ritengo che l’autofinanziamento debba essere la principale forma di finanziamento, a discapito dell’indebitamento che nei limiti del possibile deve rimanere basso.
Agli inizi degli anni Novanta, tuttavia, il fatto di essere sommersa dai debiti ha di nuovo rappresentato per me una motivazione straordinaria per lavorare ancora di più e ancora meglio. Dicevo continuamente a me stessa: “Devo essere lucida per produrre denaro e selezionare le opportunità imprenditoriali proprio in questa direzione, perché ho una responsabilità fortissima verso quelli che lavorano con me e verso il mio papà”.
Ho così cercato di capire quale fosse il settore che mi avrebbe permesso di operare in assenza di grossi capitali e in cui fosse più possibile fare innovazione all’interno del comparto ove già stavo operando. Scelsi così l’abbigliamento da bambini e mi è andata bene. In particolare, la mia strategia è stata quella di posizionarmi in una nicchia di mercato di alta gamma e di puntare all’eccellenza nella qualità del prodotto e nella qualità del marketing, quindi nella capacità di comunicare tale eccellenza, valori reali che i clienti percepiscono nel tempo.
P&M: Quali i fattori che sono stati più di aiuto?
Mi hanno aiutato così tante cose e persone che mi risulta impossibile fare un elenco. Una cosa però ha significato più delle altre: la mia natura, che è quella della curiosità di capire e sperimentare, leggere tanto, studiare sempre, molle eccezionali per crescere e avere successo.
Nelle scelte che ho compiuto nel corso della mia attività sono sempre stata molto lucida nel saper individuare le migliori occasioni che offriva il mercato. Da un punto di vista geografico, ad esempio, ho individuato le aree in cui esistevano possibilità in termini di risorse umane predisposte e sistema produttivo correlato per far crescere le mie aziende. Localizzandomi, quindi, in zone dove vi era la presenza di concorrenti bravissimi che non mi spaventavano, anzi. La concorrenza permette lo sviluppo di abilità maggiori, di qualità superiori, di risorse umane più qualificate e, quindi, ti permette di crescere e migliorarti di continuo, molto meglio di un isolamento. Inoltre, ho incanalato la produzione nei luoghi migliori e più convenienti del mondo, in modo da ottenere vantaggi anche in termini di costo.
Per raggiungere tutto questo, ho valorizzato negli anni l’importanza di avere un sistema di gestione delle performance molto strutturato. All’interno delle mie aziende ho puntato molto sulla funzione “Amministrazione e Controllo”. Abbiamo costruito sistemi di controllo interno capaci di individuare errori o comportamenti non idonei. In più, monitoriamo non solo gli indici prettamente economico-finanziari e diversi livelli di marginalità, ma molti parametri relativi alle persone, sia per quanto riguarda la produttività settoriale, che il loro grado di remunerazione. Quindi non solo cerchiamo di sorvegliare i nostri costi di produzione, ma cerchiamo di capire come premiare, progressivamente e con strumenti di incentivazione e valutazione più personalizzati possibile, i nostri dipendenti. In più, amo molto i Bilanci. In particolare, lavoro molto nel trovare nuove modalità di interpretazione, in quanto credo che tutti i dati, se li leggi con amore, con profondità e con competenza, raccontano delle verità, delle storie.
Tutti i dati che vengono prodotti, o meglio quelli più importanti, sono poi comunicati a tutti. Il clima aziendale è, infatti, totalmente trasparente. Vengono organizzate riunioni in cui comunichiamo alle Banche e ai dipendenti i principali indici aziendali, cercando delle modalità per riscriverli in modo da renderli significativi per le prime e comprensibili per i secondi.
P&M: Per cosa si distingue invece la terza fase da Lei indicata della Sua storia imprenditoriale?
Alle soglie del nuovo millennio avevo già quattro figli più due affidi, lavoravo 60 ore alla settimana e vivevo tra città diverse (Verona, dove abito, Treviso, dove ha sede l’azienda e Milano, dove lavorava mio marito e dove conduco la maggior parte dei miei affari): non ce la facevo più!
Ero nevrotica e rabbiosa in tutte le direzioni, davo ordini veloci, secchi, non avevo tempo di compartecipare, di condividere le scelte. Improvvisamente, così, senza nessuna programmazione precedente – a me succede nella vita, nessuna meditazione, nessuna ponderazione, solo una voce che mi sento uscire da dentro – andai a dire ad una giovane donna che lavorava con me da dieci anni circa, di cui quindi avevo piena stima e fiducia: “Per favore prendi in mano tutto tu di Altana, dell’abbigliamento e io mi ritaglierò un ruolo nuovo di lavoro. Tu sei più brava di me a questo punto. Io potrò essere utile per i contratti, per i grandi clienti, per le nuove strategie, ma devo avere il coraggio di cambiare”.
P&M: Che cosa ha significato il passaggio ad una managerializzazione della gestione?
Negli anni immediatamente successivi alla mia scelta, ho attraversato momenti di grande crisi, molto interessanti, che io chiamo la “Pedagogia di Dio”. Secondo me le tappe scomode, dolorose hanno un valore profondo, che molto spesso non è leggibile mentre accadono. Solo a posteriori possiamo capire che il cambiamento necessariamente doveva passare da lì e che non ce l’avremmo fatta se non accogliendolo, anziché contrapponendoci ad esso. Queste tappe mi hanno permesso di migliorarmi, intraprendere nuove strade, nuovi progetti che mi hanno portato grandi soddisfazioni.
Dal 2001, in particolare, io dovevo ricominciare ad avere un’identità di lavoro, reinventare un nuovo ruolo per me in azienda, che non era più quello di poter decidere tutto io, cosa che l’istinto mi avrebbe condotto a fare. Ciò non è stato assolutamente semplice, anche perché negli stessi anni sono stata lasciata per la seconda volta e non avevo neanche più la mia “cuccia calda” che era un’azienda da mandare avanti. Certo sarebbe stato più facile e rassicurante continuare a governare Altana in prima persona. Ma se non avessi preso questa decisione non avrei costituito le altre aziende e non avrei fatto partire le altre partecipazioni, né i nuovi progetti. Il fatto di non prendere più in prima persona le decisioni operative mi porta, infatti, ad avere un tempo maggiore per studiare mondi nuovi e modalità diverse di lavoro, nonché ad una maggiore lucidità nei confronti di ogni azienda, di ogni progetto: osservare ciò che accade anche da spettatrice e non solo da madre che ha generato un figlio e che dunque deve difenderlo a tutti i costi a priori, è un’altra cosa!
P&M: Dalla sua biografia emerge un’immagine di Lei come quella di una donna che ha saputo coniugare la famiglia, il lavoro, i propri interessi e l’impegno civile. Ci ha appena testimoniato che non è sempre stato così, ma adesso le cose stanno realmente
in questi termini?
Sì, o almeno credo: mi sono organizzata in un modo in cui ci sono alcuni giorni della settimana in cui lavoro fuori e in quei giorni non ho tregua. Viaggio cioè in città diverse, sedi delle aziende, e ci lavoro fino a notte. Ma altri giorni della settimana sto con i ragazzi a Verona e tutto quello che io devo fare entra in quei giorni: esistono le interviste telefoniche in cui arrivano le urla dei ragazzi incrociate e la gente lo sa e ride, ed esiste un momento leggero in cui mi accuccio ai margini di un campo da rugby e scrivo. Esiste tutto e non c’è vergogna. E la tecnologia in questo mi aiuta tanto.
P&M: Cosa ama del suo lavoro?
Liberata me stessa dall’angoscia di dover consegnare, di dover fare, ho potuto guardare negli occhi tutti. Io ho rapporti di grandissima libertà con tutti nelle mie aziende: da me entrano in stanza tutti e devo proprio far fatica a dire: “Scusa, solo un attimo”. Ma questo vale ovviamente anche per gli AD, che spesso nel mio caso sono soci, quando, per esempio, ti guardano in viso e ti dicono: “Stai sbagliando, non sono d’accordo!”, e allora tu dici: “Riproviamo, cos’è che sbaglio?”. Questa libertà assoluta di rapporto secondo me è la forza delle nostre aziende.
P&M: Quale è il rapporto che si deve instaurare tra imprenditore, manager e personale dipendente?
Secondo me imprenditori e manager devono avere ruoli molto simili nei rapporti con il personale dipendente. Per assurdo è concesso a me di avere maggiore confidenza a volte rispetto a quanta possano permettersene i manager. Però io credo alla verità dell’umanità in tutti i casi. Se io andassi a lavorare con un auto molto lussuosa e nuova anziché con i miei pullmini polverosi e poi facessi una politica dei salari accorta credo sarei assolutamente meno credibile. Per cui in realtà il clima aziendale si crea a partire dalla verità dello stile di vita dei capi.
P&M: Per Lei, dunque, la responsabilità sociale dell’azienda rappresenta un elemento rilevante?
Totale, e questo sin dal primo giorno! Io sono stata cresciuta con i principi scoutistici e questi non li abbandoni mai più, ti entrano dentro ogni giorno. Addirittura devo ammettere che è stato forse più faticoso, proprio perché di fronte alle scelte più scomode mi tormento molto di più di quanto non farei se non fossi spinta da valori profondi. Sono convinta, tuttavia, che chiunque sia poco etico nei comportamenti aziendali può anche accumulare denaro nel breve, ma poi ci pensa la storia a sistemarlo, perché comunque le persone brave e oneste in qualche modo non verranno attratte a lavorare con lui o con lei: la misurazione si basa proprio su queste cose!
Per me è importante la coerenza: io sono una che ancora oggi si interroga se prendere il treno in prima o in seconda classe e va al lavoro con i pullman cittadini, mentre in Italia è sempre più diffuso il motto: “Aziende povere e famiglie ricche”.
In quello che faccio, dunque, cerco sempre di seguire la mia coscienza, mi domando ogni volta se sto seguendo o meno un’etica d’impresa. Inoltre, la fede mi accompagna in ogni decisione o gesto. Sono una persona di grande fede, passo molto tempo nei conventi a pregare, mi ricarica, mi dà energia.
P&M: In conclusione, cosa consiglieresti di fare o di non fare ai giovani imprenditori in uno scenario così competitivo e complesso come quello attuale per aumentare le probabilità di successo?
Allora, prima di tutto io consiglierei di non lavorare in famiglia da subito: credo sia importante studiare e andare a lavorare fuori, perché la maggioranza delle realtà italiane, non solo della provincia, rischiano di essere come un immenso ventre materno caldo e avvolgente, che però ti impedisce di imparare altri mondi. Una simile situazione crea orizzonti molto limitati in termini strategici e prospettici, sia a livello individuale che aziendale.
Occorre viaggiare, leggere, esplorare il mondo, integrarsi con culture diverse. Su questo, però, in Italia siamo mediamente più viziati e più spaventati di quanto sia normale esserlo altrove: siamo dei bamboccioni! Io prescriverei a tutti di andare a Seattle e Vancouver, che hanno un mondo tutto in evoluzione. Consiglierei di rimescolare le vite dei popoli, confrontare le diverse realtà con la nostra e migliorarci apprendendo dalle tradizioni, dagli insegnamenti, dalla storia di altri popoli.
Inoltre, quello che dovrebbero fare gli imprenditori in un momento di forte crisi finanziaria come quello attuale è avere il coraggio di affrontare i problemi invece di rinviarli. Devono osservare con lucidità la realtà ed avere il coraggio anche di chiudere le loro aziende, se non riescono a rialzarsi, e ripartire più in piccolo, magari cambiando l’oggetto dell’attività o salvando le scelte di produzione più sane, più innovative. Solo così possono avere nuove prospettive di crescita futura e di successo.
Il profilo
Marina Salamon
Presidente
Alchimia SpA
Marina Salamon, classe 1958, è una delle imprenditrici di successo più importanti del nostro Paese. Essa, infatti, controlla al 100% la holding Alchimia S.p.A., una delle maggiori società finanziarie (è inserita nel rapporto Mediobanca tra le prime 220 holdings di partecipazione italiane) facente capo ad importanti aziende nel settore della moda e dei servizi:
- Altana S.p.A., azienda di abbigliamento per bambini, fondata dalla stessa Marina Salamon nel 1982 ed oggi tra le maggiori realtà del comparto nel segmento del lusso, leader nel settore delle licenze; i brand prodotti e distribuiti su licenza sono Moschinio, Jeckerson, Liu Jo, Pinko Up, Vilebrequin, Jacob Cohën, oltre alle joint venture Moncler e Dimensione Danza, ed al marchio di proprietà Amore (www.altanaspa.com);
- Doxa S.p.A., la maggiore azienda italiana nel settore delle statistiche e delle ricerche di mercato, diretta dal padre fin dalle sue origini (1946), della quale Marina Salamon ha acquisito il controllo nel 1991 e di cui detiene oggi una quota del 90% (www.doxa.it);
Marina Salamon opera inoltre nel settore della finanza anche con investimenti propri. Nel 2006, infatti ottenuto una partecipazione in Banca Ifis, società quotata in borsa e specializzata nel factoring, a favore delle aziende, in Europa, e ha fondato una nuova azienda, Arendi S.p.A., insieme a Emma Marcegaglia, per la produzione di energia fotovoltaica, usando nuove tecnologie sperimentali.
Oltre e sopra a tutto ciò, Marina Salamon è mamma di sei figli (quattro di parto naturale e due affidi) e forte è il suo impegno sia civile che, soprattutto, sociale: in passato ha fatto parte, nel primo caso, della giunta comunale di Venezia e, nel secondo, della direzione di varie associazioni non-profit quali WWF, Salus Pueri e Gruppo Abele. Attualmente collabora a diversi progetti in campo sociale, sia in Italia che all’estero (solamente per fare un esempio, citiamo il progetto Francisville, la città dei mestieri, una sartoria a Port-au-Prince, Haiti, costituita in collaborazione con la Fondazione Rava e gestita direttamente sul posto, al servizio della comunità, con l’obiettivo di dare lavoro a molti giovani locali).
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